Intervista a Dario Gessati

A cura di Lucia Aldinucci

Dario Gessati nasce a Milano nel 1976. Si diploma in Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano. Dal 2003 inizia a collaborare con vari Scenografi e Costumisti come Odette Nicoletti, Alessandro Ciammarughi, Anna Anni, e in particolare Mauro Carosi. Nel 2004 è Costumista e Assistente Scenografo per Il Flaminio di Pergolesi con la regia di Michal Znaniecki al Festival Pergolesi Spontini di Jesi.

Nel 2005 firma i costumi de l’Otello di Verdi per il Devlet Opera Ve Balesi Genel Mudurlugu di Ankara. Nel 2008 adatta e disegna le scene per Giselle di Adam con la regia di Beppe Menegatti e la coreografia di Carla Fracci alle Terme di Caraca lla per il Teatro dell’Opera di Roma. Nello stesso anno inizia la lunga collaborazione con il regista Arturo Cirillo firmando spettacoli sia di prosa che di lirica tra cui L’inseguitore di Scarpa al Napoli, Teatro Festival Fatto di Cronaca di Viviani , Otello di Shakespeare Premiato come “Miglior Scenografia” dell’anno Napoli Milionaria! di Rota/ De Filippo al Festival della Valle d'Itria e al Teatro Lirico di Cagliari , L'Avaro di Molière per il Teatro Stabile di Napoli e Marche Teatro, La morsa di Pirandello , L’Infinito di Scarpa , Ferdinando di Ruccello, La purga di Feydeau; Lo zoo di vetro di Williams , Chi ha paura di Virginia Woolf di Albee , La donna serpente di Casella coproduzione Festival della Valle d’Itria e Teatro Regio di Torino , Scende giù per Toledo di Patroni Griffi al Napoli Teatro Festival , La gatta sul tetto che scotta, Liolà di Pirandello e Miseria e nobiltà di Scarpetta per lo Teatro Stabile di Napoli, Cenerentola di Rossini per il Teatro Grande di Brescia, Lunga giornata verso la notte di O’Neill prodotto dal Tieffe Teatro Menotti di Milano , La scuola delle mogli di Moliére prodotto da Marche Teatro, Teatro Stabile di Napoli e Teatro Elfo Puccini di Milano , Orgoglio e pregiudizio di Austen prodotto da Marche Teatro e Teatro Stabile di Napoli.

Contemporaneamente, firma le scene per il regista Andrea Cigni in vari spettacoli di l irica tra cui La Traviata e Ernani di Verdi per il Circuito Lirico Lombardo; Norma e La Straniera di Bellini, Carmen di Bizet , La cambiale di matrimonio e L’occasione fa il ladro di Rossini per il Teatro Regio di Parma , Pia De’ Tolomei di Donizetti per il Teatro Verdi di Pisa e Festival Spoleto USA di Charleston, La Fanciulla del West e Tosca di Puccini per il Teatro Grande di Brescia e Carlo Felice di Genova, Nabucco di Verdi al Teatro Regio di Torino e Teatro Massimo di Palermo , Madama Butterfly di Puccini per il Teatro Nazionale Croato di Zagabria e Fondazione Arena di Veron , La favorita di Donizetti al Teatro Comunale di Piacenza e Teatro Regio di Parma.

Spartacus di Aram Il'ič Chačaturjan per la coreografia di Jiř í Bubenicek prodotto dall'Opera Ballet di Lubiana.

Per la regia di Mariano Bauduin, L’Isola disabitata di Jommelli al Teatro San Carlo di Napoli e Il Trovatore di Verdi al National Theatre di Tirana.
Per la regia di Alfonso Antoniozzi, La grotta di Trofonio di Paisiello al Festival della Valle d’Itria e Teatro San Carlo di Napoli, Medea di Euripide con la regia di Emilio Russo al Teatro Olimpico di Vicenza.

Dal 2003 al 2015 ha lavorato presso il Laboratorio di Scenografia del Teatro dell’Opera di Roma. Dal 2015 Docente di Architettura Scenica e Progettazione Scenografica presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma “Silvio d'Amico" e Docente di Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Sassari “Mario Sironi"

Cosa l'ha appassionata in questo tipo di studio che l'ha portata ad insegnare scenografia?
Prima di iniziare ad insegnare ho lavorato per tredici anni come Scenografo realizzatore nei Laboratori di Scenografia del Teatro dell’Opera di Roma e, parallelamente, svolgevo il mestiere di Scenografo con vari Registi, sia in prosa che lirica. Non ho mai pensato alla possibilità di insegnare anzi, l’ho sempre escluso.
Mentre allestivo spettacoli in varie città, spesso mi veniva chiesto di partecipare ad alcune conference e incontri con gli studenti di Accademie e Licei Artistici e mi sono reso conto quanto mi appassionasse invece dialogare con chi stava iniziando un percorso artistico, teatrale e scenografico. Spesso sono rimasto colpito dall’entusiasmo.
Un po' per gioco ho così partecipato a un Bando Nazionale per la docenza di Scenografia nelle Accademie di Belle Arti e, vincendolo, ho iniziato, con enorme terrore, questa nuova esperienza. Terrore perché l’insegnamento implica una grande responsabilità.
Il caso ha voluto che nello stesso momento mi chiedessero di insegnare anche all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma. In una settimana ho così rivoluzionato la mia vita, ho lasciato dopo tanti anni l’Opera di Roma e ho iniziato a insegnare Scenografia sia all’Accademia di Belle Arti Mario Sironi di Sassari che alla Silvio d’Amico di Roma.

Vi è stato un momento, un accadimento che l'ha condotto a divenire scenografo?
Certamente mentre studiavo all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, ma non subito. Ho avuto la fortuna di studiare con un grande uomo e maestro, Carlo De Simone. Con lui si studiava approfonditamente il testo drammaturgico che dovevamo poi progettare. Durante le lezioni ogni studente leggeva e interpretava un personaggio del testo. Quei momenti sono stati per me un modo per capire l’importanza di come uno Spazio non possa prescindere da una drammaturgia e che, Spazio e drammaturgia, debbano evolvere insieme. Ho imparato che il Teatro è comunità, lavoro di squadra ma anche un gioco assai divertente. Il secondo anno di Accademia stavo lavorando a un progetto per la scena de I giganti della montagna di Pirandello e parlando con il mio Docente ho capito che il plastico di scena che stavo costruendo potesse diventare reale, concreto ma soprattutto che potesse diventare vivo e in movimento. De Simone è stato anche uno degli artefici e fondatori negli anni ’60 del Teatro Esse di Napoli e mi ha trasmesso un’enorme vitalità e speranza. Speranza perché voler diventare Scenografo può essere si un’aspettativa, ma mai una certezza. E’ un mestiere che non accade solo perché lo si desidera ma soprattutto per ciò che si è disposti a fare, mettendosi nella condizione di poterlo essere e diventare. Mettersi in gioco e far sì che il Teatro diventi totalizzante per necessità, è una condizione non scontata e non oggettiva.
Dopo l’Accademia mi sono trasferito a Roma. Ho conosciuto vari Scenografi e Costumisti tra cui Luciano Ricceri, Enrico Job, Emanuele Luzzati, Anna Anni, Franco Zeffirelli… ma è con Mauro Carosi e Odette Nicoletti che, conoscendoli e lavorando con loro, mi hanno dato conferma che volevo essere uno Scenografo. Quando andavo a studio da loro mi affascinava disegnare, ascoltando ininterrotamente le musiche delle opere su cui stavamo lavorando; ero elettrizzato quando arrivavano i Registi e ascoltavo segretamente i discorsi e le idee che li portavano poi a creare spettacoli che hanno fatto Storia; mi entusiasmavo ad ascoltare
aneddoti e vicende, ero galvanizzato quindi da quel mondo, fatto di tanto studio, lavoro e fatica ma anche di bellezza, passione, gioco e tante risate. Sentivo di appartenere a un mondo preciso e affascinante, ne respiravo quotidianamente il profumo.

E' diverso montare le scene in un teatro, al cinema o per la televisione? Cosa la appassiona maggiormente?
In televisione o al cinema non ho mai lavorato come Scenografo. Certamente il modo di fare cinema ora, rispetto al passato, è molto cambiato. Una volta nel cinema si “costruiva e progettava tutto” (o quasi). Penso a importanti produzioni come Il nome della rosa di Eco/Annaud, Medea o Il Decamerone di Pasolini, Barry Lyndon di Kubrick, El Viaje di Pino Solanas, penso a Sergio Leone o Fellini, a Lars Von Trier e a tanto altro in cui lo Scenografo era sul set, artefice di un momento creativo in evoluzione. Ora il cinema lavora per location e post produzione e probabilmente non mi emozionerebbe poi così tanto, chissà!
Nel Teatro si è testimoni di qualcosa che cresce e si evolve in un momento preciso, senza margine di errore e, soprattutto, dal vivo con un pubblico che osserva. Del Teatro mi appassiona quindi la sua irriproducibilità, nonostante la scena sia la stessa ma, dal momento che lo spettacolo diventa “vagabondo” e itinerante, la scena si deve adattare agli Spazi più diversi perché con il Teatro si deve poter arrivare dappertutto.
Per quanto riguarda la televisione non saprei. Scenograficamente secondo me è morta dopo i grandi Varietà serali degli anni ’50, ‘60 e ’70, ora cosa rimane della televisione a parte qualche led wall?

Come nasce e si sviluppa il lavoro di scenografo?
Per fare un mestiere artistico, qualunque esso sia, bisogna certamente essere curiosi e appassionati. Sperimentare. Nello specifico, nella Scenografia bisogna innanzitutto avere la capacità di trasmettere per immagini un proprio pensiero, un’idea. I mezzi sono personali ovviamente. Per quanto mi riguarda sin da piccolo amavo disegnare, durante gli anni del Liceo mi sono appassionato al disegno più tecnico e architettonico ma tutto questo non vuol dire che sapessi cosa fosse la scenografia, tanto meno il teatro. Lentamente ho cominciato a comprendere durante gli anni dell’Accademia. Eravamo in tanti a studiare Scenografia ma tra tutti i miei colleghi sono stato quasi l’unico ad avere la fortuna di diventarlo. Il Teatro e la Scenografia, per me non sono stati altro che un incontro. Può succedere o non succedere, ma se “ci si mette sulla strada” la probabilità di incontrare qualcosa o qualcuno è più alta. “Mettersi sulla strada” vuol dire ovviamente rischiare, senza sapere bene chi e cosa si incontrerà. Più alta è la convinzione (o forse l’incoscienza), più è probabile che si arrivi da qualche parte, nonostante la fatica e i dubbi.
Non so oggettivamente cosa porti a diventare Scenografo, Costumista, Regista o Attore. Per me è stata innanzitutto la fascinazione per un luogo che è quello teatrale. Il silenzio forse, stando seduto in platea quando non c’era nessun altro, l’odore, gli scricchiolii del palcoscenico. Marionette e burattini, le maschere di Giancarlo Santelli, i programmi di sala
che rubavo quando camminavo per i corridoi e gli uffici del Teatro Piccolo di Milano, la luce degli spettacoli di Strehler, lo stupore per gli spettacoli di Dodin o Nekrosius, le lacrime per uno spettacolo di Moni Ovadia, i silenzi e lo sguardo del mio docente di Scenografia, la tomba di Samuel Beckett che ho scoperto al cimitero di Montparnasse a Parigi, una lettera di Emanuele Luzzati… insomma, ciò che mi ha convinto a voler diventare Scenografo sono state le esperienze (a volte casuali), belle o meno belle che ho incontrato.
Con questo non voglio dire che per diventare Scenografi non si debba obbligatoriamente studiare. Bisogna aver voglia di conoscere, di disegnare finché non si trova uno stile e una soddisfazione personale, per passione ma soprattutto per ostinazione… per sé stessi. Bisogna aver voglia di dire qualcosa, ognuno a proprio modo e con il proprio stile, senza rinunciare ad essere ambiziosamente un po' poetici forse.
Sulla parete dell’aula in cui studiavo Scenografia in Accademia c’era un quadrato nero di compensato e al centro un foglio bianco con scritto queste parole di Josef Svoboda:

“Quando mi siedo in una platea deserta
e guardo lo Spazio oscuro della scena,
vengo ogni volta afferrato dalla paura
che divenga impenetrabile.
E spero che questo timore
non mi abbandoni mai.
Senza questo perpetuo tentativo
di rivelare il segreto della creazione,
non c’è creazione.
Bisogna sempre cominciare da zero
Ed è questo che è meraviglioso.”

Per tanto tempo ho cercato di interpretare queste parole finché, ad un certo punto, ho cercato di emularne, per lo meno, la condizione.
Tutte queste esperienze mi hanno dato modo di fare così, qualche primo passo per dove, non lo sapevo ancora ma partire e trasferirmi a Roma è stata la prima vera opportunità che mi sono concesso. I passi successivi sono venuti un po' da sé. Camminavo tutto il giorno per Roma, città che, diversamente da Milano, quindici o venti anni fa si concedeva in vesti più fascinose. Ho avuto la fortuna di presentare i miei lavori e di incontrare grandi Scenografi e Costumisti come Enrico Job, Mauro Carosi, Odette Nicoletti finché, un po' per caso, sono entrato a lavorare al Teatro dell’Opera di Roma nei Laboratori di Scenografia di Via dei Cerchi. Esperienza lunga e fondamentale per uno Scenografo. Oltre a dipingere e scolpire ho imparato a usare e conoscere i materiali. Dopo la giornata in Laboratorio andavo alle prove in teatro e spesso ci stavo fino alla fine. Contemporaneamente (come dicevo poc’anzi) ho iniziato a lavorare per Mauro Carosi che mi ha insegnato tutto il resto e che ancora conservo gelosamente. Gli amici mi hanno fatto poi conoscere altri Scenografi e Costumisti come Anna Anni o Alessandro Ciammarughi e, di conseguenza molti di quei Registi con cui lavoro ancora oggi, dopo quindici anni, come Arturo Cirillo, Andrea Cigni per citarne alcuni.
Da qui, la difficoltà è mantenere le collaborazioni e godere della fiducia dei Registi con cui si lavora nel tempo.
Le modalità per sviluppare il lavoro sono diverse, ogni Scenografo o artista ha la sua metodologia. Personalmente, ho la necessità di capire il testo, la musica, l’intento dell’autore, il contesto sociale in cui è stata scritta o musicata l’opera. Prima ancora di parlare con un Regista ho la necessità di farmi un’idea personale di cosa “significhi” ciò che sto leggendo o ascoltando. Mi piace farmi affascinare o suggestionare senza idee preconcette o sulla tecnica che necessariamente dovrò poi utilizzare. Successivamente inizio a osservare e sfogliare tutto ciò che può darmi spunti sempre più concreti: libri d’arte, architetture, fotografie, etc. Insomma, cerco di immagazzinare nella mente una serie di informazioni per poi farne una selezione sempre più stretta. Se il tempo me lo permette, spesso mi piace sdraiarmi sul divano e, guardando il soffitto, faccio in modo che le immagini si compongano e si incastrino con la drammaturgia. Prima di iniziare a disegnare qualcosa, a volte passano diversi giorni. Nel primo incontro e confronto con il Regista porto qualche schizzo che è ancora più una suggestione che uno Spazio concreto. Così si va avanti, pezzo per pezzo finché non si trova l’idea giusta, condivisa e utilizzabile.
Si passa quindi alla progettazione su carta. Io lavoro ancora facendo tutto (o quasi) a mano: schizzi, bozzetti, disegni tecnici ma credo di essere rimasto uno dei pochi. E’ faticoso disegnare ancora tutto a mano, i tempi sono sempre più convulsi e stretti, ma è anche una grande soddisfazione quando il bozzetto che hai disegnato è esattamente come lo avevi immaginato. Dopo il progetto arriva la fase più divertente: i viaggi per il laboratorio che realizza la tua scena, il montaggio in palcoscenico, le prove e infine il debutto, che rende tutta la fatica un flebile ricordo.

All'interno di una rappresentazione qual è il peso della scenografia?
Luciano Damiani diceva che “non si deve decorare uno Spazio, ma strutturarlo”. Il termine scenografia mi fa venire in mente qualcosa di decorativo, estetico e forse immobile, fine a sé stesso. La drammaturgia ha necessità invece di uno Spazio che evochi ma soprattutto che possa mutare nel tempo, che possa essere usata da un regista o da un attore, che si trasformi, che si “rompa” per poi rinascere con un’altra forma.
Per come intendo io lo Spazio teatrale, la Scena/Spazio ha perciò un peso fondamentale anche se si tratta di uno Spazio “buio” o fatto di pochi elementi. Lo Spazio, all’interno di una drammaturgia, deve evolvere insieme ai personaggi. Non sono due entità indipendenti. Se il personaggio evolve con la storia che racconta, se muta e cambia (come nella vita) allora anche lo Spazio subisce una trasformazione. La percezione di uno stanza cambia se siamo felici o tristi, cambia come cambiamo noi di minuto in minuto… lo Spazio teatrale deve quindi avere un’impercettibile e infinito moto perpetuo, trasformarsi così come le nostre percezioni, le nostre relazioni, la vita. Spesso, quando possibile, mi piace infatti che sia l’attore a muovere gli elementi di una scena proprio perché, come nella vita, le azioni dell’uomo modificano di conseguenza il contesto che lo circonda e il nostro stare nel mondo.
Dal mio punto di vista lo Spazio scenico deve evocare e non descrivere, deve suggerire e non ripetere.
Il peso in una rappresentazione è l’insieme di ogni singolo mestiere o ruolo. Più si sviluppa un lavoro in sintonia e in condivisione, più lo spettacolo diventerà emozionante per chi lo fa e per chi lo osserva.

Quali sono stati i suoi maggiori successi?
I miei maggiori successi sono certamente quelli che hanno portato il pubblico, un amico o un collega a scrivermi dopo aver visto lo spettacolo. E’ un momento che mi emoziona moltissimo. I complimenti del pubblico, l’intento condiviso e partecipato, la fascinazione di chi guarda sono uno dei motivi per cui si fa questo mestiere. Ricevere il consenso emozionato di uno spettatore è impagabile.
Detto questo, penso che la soddisfazione personale provenga anche dalla possibilità di creare qualcosa di importante; qualcosa che viene realizzata, messa in scena e “utilizzata” esattamente come l’avevi pensata e progettata.
Per tutti questi motivi non posso prescindere il successo personale e creativo, con un pubblico affascinato o da uno scambio felice e riuscito con il Regista. Penso quindi ad alcuni di questi miei lavori come L’inseguitore di Scarpa, Otello di Shakespeare, L’Avaro e La scuola delle mogli di Moliére, Scende giù per Toledo di Patroni Griffi, La donna serpente di Casella, Miseria e nobiltà di Scarpetta, La Cenerentola di Rossini, Ferdinando di Ruccello, Ernani e Nabucco di Verdi, La Straniera di Bellini, Orgoglio e pregiudizio di Austen, L’isola disabitata di Jommelli, Madama Butterfly di Puccini e molto altro ma spero che questo sia solo l’inizio.

Quale sono state le scene più difficili che ha dovuto realizzare? e quelle piu' semplici?
Non c’è semplicità nel pensare o progettare una scena. Ogni testo ha delle problematiche particolari e specifiche. Spesso le scene più difficili sono quelle in cui “c’è poco”, pochi elementi che debbano però parlare con la forza di evocare e convincere attori e pubblico.
Tutto diventa ancora più difficile e complesso quando non si trova un codice comune con il Regista ma, per fortuna, lavoro con Registi che sono diventati anche amici e “lo scontro” spesso diventa solo una necessità positiva, un confronto fondamentale e imprescindibile.
La difficoltà più grande per me è la mancanza di tempo, un produttore o un teatro che non sono in grado di organizzare il lavoro o, peggio, quando percepisco che quel lavoro che stai facendo viene prodotto tanto per riempire un cartellone senza cioè un intento culturale o spettacolare.

In un momento così delicato e difficile cosa vorrebbe dire ai giovani che intraprendono questo percorso formativo?
Di non scoraggiarsi ovviamente. Ogni momento buio della storia ha dato vita sempre a un nuovo Rinascimento. La formazione per questo percorso si può fare (per un periodo certamente non infinito) anche in solitudine. Eugenio Barba dice che “bisogna essere un po' asociale per realizzare il tuo possibile” e forse, in questo momento sospeso, la solitudine può essere anche l’occasione per fermarsi, accanirsi, tornare ad avere fame e quindi essere più ostinati.
Non credo assolutamente sia stato il Covid a inibire sogni o speranze nei giovani, credo che il problema sia precedente e che spesso i giovani non ne siano solo la vittima. Lavorando da qualche anno con possibili, futuri scenografi o registi mi rendo conto che (a volte) manca il coraggio, il metodo, la voglia di andare oltre, di pensare oltre, di creare spazi di discussione e confronto, di pensare in grande. Vedo sempre più spesso giovani, possibili scenografi che quasi mai disegnano o dipingono e questo lo trovo incredibile, contraddittorio e pericoloso. Non dico che manchi l’entusiasmo o la convinzione, ma noto che è sempre più labile, sempre pronta a crollare. Certamente il tempo presente non aiuta ma l’autocommiserazione ancora meno. E’ innegabile purtroppo che il sistema dia a un giovane sempre meno credito e fiducia ma credo anche che questo non debba implicare un conseguente immobilismo. I Master e gli stage infiniti sono il problema perché spesso non sono nemmeno formativi. Il lavoro invece non pagato dopo la formazione accademica bé, lo è sempre stato purtroppo, anche in tempi più antichi.
Ciò che mi viene da dire ai giovani, possibili scenografi è quindi di disegnare ininterrottamente, copiare i bozzetti dei grandi maestri, “farli propri” finché non si trova il proprio stile. Disegnare o dipingere per crearsi un luogo personale, un di rifugio di intima soddisfazione. Bisogna cercarsi una figura di riferimento, un personaggio o un maestro che ha creato mondi nuovi… emularlo avendo l’ambizione, se possibile, di superarlo.
Infine, un consiglio, per quando sarà possibile: riorganizzarsi, fare squadra, creare luoghi d’incontro e di emancipazione culturale, andare a Teatro e renderlo vitale più di quanto credano chi, il Teatro e la Cultura, dovrebbe promuoverla e sostenerla.

 

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Dal 19/04/2024 al 19/04/2024

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